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Vi affido questa parola: Insieme! Intervista al Vescovo di Genova Marco Tasca

A cura di Francesco Bavassano e Marco Scarfò

Incontriamo Padre Marco Tasca, il nuovo Arcivescovo di Genova, nel convento di Albaro. È riuscito a dedicarci una serata in un periodo ricco di impegni, in cui sta conoscendo la Chiesa genovese e tanti lo cercano, desiderosi di conoscere un Francescano che ha girato il mondo e per la prima volta è chiamato ad essere Pastore di una Diocesi.  

 

Buonasera Padre, ci fa piacere intervistarla a nome di Agesci Liguria perché la nostra associazione è desiderosa di essere Chiesa attivamente. In questo caso, nel conoscere una figura come la sua che ha acceso interesse e curiosità nei giovani.

Iniziamo chiedendole come si è trovato a Genova, prime impressioni?

Sono arrivato qui effettivamente che della città, della chiesa, della vita sociale sapevo pochissimo; avevo avuto informazioni molto generiche. Per cui il mio spirito è stato “andiamo e vediamo”. Lo ammetto, il primo impatto con l’autostrada stretta e tortuosa che si incunea nella città non è stato molto gradevole per uno che viene da un paese. Poi sono arrivato e ho iniziato la cosa per me più importante, quella di conoscere: di andare a visitare le comunità cristiane, le parrocchie, i gruppi, i preti e di ascoltare. Io ho fatto questa scelta e sono convintissimo che sia quella che ti permette di non strafare subito. Ho iniziato questi incontri subito dopo l’ordinazione in luglio.

Due cose mi hanno colpito in maniera particolare: in primis l’accoglienza della gente. Venivo a Genova con alcuni preconcetti che mi avevano dato, di gente un po’ freddina che sta per i fatti suoi ma io vedo che quando vado in una comunità cristiana questa mi accoglie molto bene, con molta serenità, con molta fraternità, per quanto è possibile con il Coronavirus. Questo accade anche con i preti, io fino ad adesso sono stato accolto, c’è un bel rapporto. Quello che io sto sperimentando è che Genova è una città e una Chiesa complessa: ha una grandissima storia, da tenere presente; quindi io mi voglio inserire in questa realtà religiosa e civile ascoltando, come prima cosa.

Una scoperta per me è stata che l’Arcivescovo qui ha un ruolo sociale. Non sono soltanto le persone di fede cattolica che fanno riferimento a lui. La realtà sociale, la realtà lavorativa con l’esperienza molto bella dei Cappellani del Lavoro, le aziende che cercano il Vescovo per gli auguri di Natale.  Questa per me è una cosa nuova e pian piano sto imparando a tenerne conto.

Avvicinandoci al nostro ambiente scout, del quale sappiamo lei ha poca esperienza, che cosa le viene in mente se pensa allo scautismo?

Se penso a Genova quello che ho sperimentato è la presenza capillare degli scout nelle comunità cristiane, una presenza molto apprezzata e che quindi è per me una realtà importantissima, da tener presente. È vero che il valore non viene solamente dall’indice di gradimento, ma secondo me c’è una proposta forte e dai preti che operano pastoralmente in questa realtà ho sentito molta motivazione. Poi ho scoperto che i primi gruppi in Italia sono nati proprio qui a Genova.

Si, su iniziativa dell’inglese Spensley e educatori italiani come Mario Mazza. Siamo tutt’ora una città ad alta densità di scout, costellata di gruppi.

Una cosa che mi ha colpito in questi mesi è il registrare in quante realtà chiedono la presenza degli scout, questo pare che sia difficoltoso per la presenza di pochi Capi. Mi ha colpito perché non me l’ha detto solo una persona, ci sono anche persone non scout che mi chiedono se posso fare qualcosa per far nascere un nuovo gruppo scout in una parrocchia.

In generale non c’è una chiara tendenza alla diminuzione del numero globale dei capi quanto un ricambio un po’ accelerato e una vita più precaria che riverbera sui gruppi. Prendendo spunto dalle sue parole, ci sembra di riconoscere che stia aumentando la richiesta e la necessità di proposte educative di valore in questa società.

I genitori vedono che questa proposta con i ragazzi funziona, credo che la proposta affondi le radici in alcune dinamiche di fondo che le famiglie apprezzano, vedendo anche i figli che partecipano volentieri ovviamente. Il solo fatto che uno vada volentieri non è necessariamente indicativo che una cosa sia buona, ma probabilmente lo stile e le esperienze di questo cammino funzionano, quindi bisogna interrogarsi un po’ anche sulla formazione di nuovi capi.

Passiamo al mondo religioso dal quale proviene. Riscontriamo infatti delle vicinanze con la spiritualità francescana e il metodo scout. Ad esempio, il saper stare in comunità, di cui ha parlato di recente anche al clero genovese.

Lo stare in comunità non è tanto “io scelgo di stare in comunità”, cristianamente non mi sembra che sia proprio così, tu sei chiamato a stare in comunità, che tu lo scelga è un altro discorso. Vivere in comunità è un regalo che ti viene fatto, una missione che ti viene affidata. Quindi partire dal fatto che io scelgo è vero, ma l’altra faccia della medaglia è che tu sei stato chiamato a vivere in comunità, quindi rispondere a una chiamata molto semplicemente. Poi ci sono tutta una serie di conseguenze che per me sono estremamente importanti, una per esempio è mettere insieme le differenze, questa è una sfida enorme oggi perché la società sta estremizzando le differenze e credo che questo sia un grandissimo impoverimento. Credo anche che un grosso sforzo cui siamo chiamati tutti è quello di accogliere le differenze come dei regali che ci vengono fatti. Questo cambia di fatto tutto l’apparato della comunità, non siamo fatti tutti come fotocopie, la sfida di oggi è mettere insieme le differenze.

Un altro tema su cui torno spesso è se imposto la mia vita di comunità come una difesa, sarebbe un problema. Nel Vangelo di Giovanni, quando il servo del sommo sacerdote schiaffeggia Gesù, lui non si difende assolutamente ma in alcune traduzioni c’è la parola “amico se ho fatto qualcosa di male dimostramelo, altrimenti perché mi percuoti?”. Gesù è solo e soltanto preoccupato di dare all’altra persona un’occasione per entrare in sé stessa, non deve difendersi da niente. Invece spesso noi viviamo la nostra vita comunitaria in difesa; Gesù non si è difeso, ma ha cercato di offrire una chance, offrire una chance all’altra persona di entrare in sé stessa, “perché ti comporti così? perché sei così aggressivo? che cosa ti sta creando problemi?”, io credo che sia importante, se davvero la comunità è una chiamata, che come Gesù non dobbiamo difendere niente da nessuno.

Un altro elemento è la consapevolezza che noi, come dice Papa Francesco, siamo una Missione, il rischio della comunità è di essere autoreferenziali, guardare a sé stessi, le proprie cose, come vanno le cose, se stiamo bene… Che sono cose importanti, ma la Missione? Quale ci è stata data? Dobbiamo passare dal guardarci l’ombelico a guardare avanti.

Ha toccato un punto focale anche per gli scout, per i quali un pericolo è quello dell’autoreferenzialità. Noi abbiamo la nostra uniforme, abbiamo il nostro linguaggio, le nostre attività. Chi ci vede da fuori a volte ci considera una piccola setta. Ovviamente non è proprio così, però può esserci il rischio di essere contenti fra noi e non aprirci.

Al centro di tutto c’è la relazione, quanto davvero stiamo coltivando relazioni? Come comunità cristiana, come preti, stiamo coltivando relazioni? E quanto siamo preoccupati di fare qualcosa? Di fare quello che si è sempre fatto? Che è un altro mito qua a Genova, mi sembra. Suvvia, si potrà anche cambiare nella vita! (sorride). Se la relazione è il centro, quanto tempo le dedichiamo? O prima ci impegniamo a fare tantissime altre cose e poi se c’è tempo facciamo anche le relazioni? Non funziona così!

Come vede la Chiesa che si rapporta coi giovani in questo tempo?

C’è un elemento che mi colpisce molto nel modo in cui noi preti vediamo i giovani: normalmente a me pare che vi sia una richiesta, una proposta, e poi “voi ditemi sì o no”. Io credo che sia un modo che non porta i frutti sperati. Nelle mie esperienze all’estero, in Asia, in una parrocchia sperduta, la Chiesa alle sette di mattina stracolma di giovani e giovani coppie, loro me lo hanno detto: “stiamo cercando qualcosa, sentiamo che quello che ci viene proposto non ci basta”. Quindi credo che la prima cosa sia essere convinti che i giovani stanno cercando, a loro modo, con loro stile, ma stanno cercando. Se noi non ci inseriamo e non ci sintonizziamo su questa ricerca non credo che arriveremo a nulla, faremo le folle oceaniche per cinque giorni e poi ognuno torna a casa sua. Queste esperienze o hanno un prima, un durante e un dopo o non funzionano. Non funzionano più, non siamo più a trent’anni fa in cui i ragazzi avevano una certa struttura di fede, un appoggio sociale a quello che era un cammino di vita e di fede. Adesso non c’è più; dobbiamo allora inserirci in questa ricerca dei giovani, a loro modo, strana, inconcludente, incoerente, ma quei giovani in Asia dicevano “noi stiamo cercando, aiutateci”. Allora se questo è davvero il nostro obiettivo, di stare e sintonizzarci con i giovani, diventa tutta un’altra cosa.

Questo comporta cambiare le nostre strutture: mi accontento che i ragazzi vengano all’incontro dei giovani, che è una cosa buona, ma dopo? E prima? Anche in questi giorni che sto andando a celebrare un po’ di Cresime sento molto spesso un ritornello dai parroci “una volta il sacramento dell’addio era la cresima, ma adesso è la prima comunione”. E noi come investiamo le nostre energie? Dovremmo domandarci come inserirsi in questa dinamica di ricerca che i giovani hanno, ne sono convintissimo.

Mons. Tasca e Mons. Anselmi al primo incontro con i giovani genovesi, Settembre 2020

Un po’ l’atteggiamento della parabola di Emmaus, che era al centro del Sinodo dei giovani a cui lei ha partecipato. Gesù che si avvicina quando i discepoli stanno già camminando e che prima di parlare, li ascolta.

È interessante che Gesù risponde alle loro domande, non è preoccupato di dire lui, dopo dice lui, quando vengono fuori le domande. Qui torniamo sul tema della fretta di dare risposte, che secondo me ci sta ammazzando: risposte a domande che magari non ci sono.

Un motto di Agesci di ormai un po’ di anni fa era “abitare le domande”, un modo di stare nella complessità della società attuale. Anche perché noi Capi viviamo dinamiche simili a quelle dei giovani, siamo i loro fratelli maggiori. Spesso ci rivolgiamo a esperienze con ordini e fraternità religiose alla ricerca di una proposta di fede che abbia un linguaggio che tocchi di più il cuore dei giovani e dei ragazzi, e spesso la sperimentiamo in esperienze come i campi di Pasqua, alle quali non è sempre facile dare continuità nella vita quotidiana di fede e della Parrocchia. Abbiamo un grande bisogno di parole di Vita, lei ha in mente qualche indirizzo per il futuro?

Al momento non ho ancora idee chiare, ma voglio che le cose siano fatte insieme.  Per adesso sto ascoltando per camminare insieme. Anche qua noi forse dobbiamo accogliere che non siamo più la maggioranza, anche se battezziamo ancora il 90% dei bambini, che è una cosa buona, però qualche domanda dobbiamo farcela.  È anche vero che se tu hai una proposta convincente i ragazzi vengono; mi ricordo in Francia, in una zona dove la frequenza alla messa domenicale era lo 0,7%, lì una comunità di frati ha inventato qualcosa, uno stile di vita, un modo di relazionarsi per cui io sono andato là una domenica sera al vespro e la chiesa era piena. Se tu hai qualcosa da dire, sono convinto che i giovani non ti vengano dietro, ma si chiedano “Cosa c’è? Perché questi frati hanno questo stile di vita? Perché fanno questo? Perché non fanno quell’altro?”. Se la nostra vita non pone domande, facciamo quello che tutti fanno, non credo che sia una cosa buona.

Un esempio vicino a noi può essere quello della Chiesa del Gesù, con la Messa delle 21 molto partecipata dai giovani, con tutto il mondo gesuita genovese.

Un altro tema che mi colpisce molto è che il volontariato a Genova è molto forte, il volontariato laico e religioso. Una sera, alla chiesa di Banchi, un ragazzo non credente mi ha detto “Io sono venuto qua perché sento proprio il bisogno di fare qualcosa per gli altri.” Se ci inserissimo in questo bisogno di fare qualcosa per gli altri… non per dire adesso vieni in chiesa, ma per camminare insieme. Chiedere “come stai? Come va la tua vita?” Se non c’è questa relazione prima di tutto, diventa una cosa fasulla, l’obiettivo non è si riduce a portarlo in chiesa a fare la prima comunione.

Lo stesso Joseph Ratzinger nel 1969, ancora teologo bavarese, aveva scritto di una Chiesa Cattolica di minoranza, che sarebbe rinata dalla semplicità.

Come facciamo fatica a entrare in questa ottica, poi la dinamica del potere non è ancora passata. C’è ancora l’idea di dire “noi siamo tanti, abbiamo tante strutture, abbiamo tante scuole, abbiamo tante banche, tante cose”. Non so se questo ci faccia bene, confrontandoci con le chiese di minoranza che sono di una vivacità enorme.

Però più si è minoranza più si rischia di esaltarsi a vicenda, si è felici e contenti ma all’interno del proprio circoletto.

Bisogna infatti parlare di minoranza creativa; una minoranza può essere un ghetto, invece deve essere creativa. Quanto questa minoranza ha fantasia? Sono vivi perché sono liberi, perché non devono mettere a posto e sistemare una marea di cose accessorie.

Viene istintivo allora pensare a una presenza più massiccia dei laici all’interno della Chiesa…

Ma sì certo, quello che io dico sempre ai preti è che il problema non è che siamo pochi, il mio ordine aveva una parrocchia nel centro America di 130.000 persone e 26 chiese, portate avanti con soli tre frati. Il problema non è che siamo pochi, perché anche là facevano battesimi, comunioni, cresime, matrimoni, funerali, il punto non è questo: è mettere al centro la evangelizzazione, per la quale non possiamo contare solo sui preti ma sull’intera comunità cristiana.

Ad esempio, se in una parrocchia non ci sono le forze per fare pastorale giovanile, dobbiamo rinunciare? Non meglio a livello di Vicariato fare un gruppetto di persone? Il nostro compito è di evangelizzare, noi siamo chiesa per questo, sennò non abbiamo niente da dire. Anche sulle varie realtà ecclesiali, ognuno fa il suo cammino, lo fa bene, ma quanto c’è sinergia tra di noi?

 

Come scout siamo quasi sempre legati a una o più parrocchie però il vertice non è il parroco che è un Capo, l’assistente ecclesiastico. Non è sempre facile collaborare con i sacerdoti, ma quando sono presenti e i capi li sanno accogliere, i parroci danno ovviamente una svolta alla qualità della proposta di fede (e non solo). C’è un certo allarme nell’Agesci perché iniziano a esserci tanti gruppi senza un assistente ecclesiastico e si cercano esperienze complementari.

Nella mia esperienza l’ordine secolare francescano ha un assistente spirituale, in giro per il mondo ci siamo accorti, come superiori generali, che non si potevano trovare frati e si è aperto alle suore e ai laici preparati senza nessun problema. Anche lì, ci si fossilizza sul ruolo del presbitero, che è fondamentale e importante, ma io ho visto in giro per il mondo quante brave suore o religiosi hanno fatto gli assistenti molto bene. Io credo che davvero anche qui il discorso sia veramente ad aprire ai ministeri e ai carismi: se una persona ha la capacità di animare un gruppo allora bene, lo faccia. Secondo me il punto cruciale è quello di valorizzare i ministeri che ogni battezzato ha: sacerdotale, regale e profetico, altrimenti i conti non torneranno mai.

A prescindere dal carattere dei capi e del sacerdote, il fatto che l’AE sia presente è un arricchimento, anche quando i sacerdoti si pongono duramente o i capi non sono particolarmente accoglienti. Il rischio di un inaridimento spirituale dell’associazione c’è e possiamo notarlo in alcune associazioni scout europee più “secolarizzate”.

Quanto queste associazioni aiutano questi ragazzi a farsi le domande di fondo della vita? “Per chi mi alzo la mattina? Nelle risposte alle domande profonde della vita (il dolore, la morte), là secondo me si incontra veramente Dio, nella misura in cui si innesta in queste domande. Secondo me se la società fa presto a dire “togliamo Dio” ma le domande di fondo hanno delle risposte religiose, c’è anche Dio, non dico che c’è solo Dio. E allora come la mettiamo? Io credo che sia davvero importante tener viva questa dinamica delle domande di fondo della vita, perché altrimenti c’è il rischio che ci perdiamo in tante cose anche belle, ma con i ragazzi tu vedi che anche se pare che non gliene freghi niente alla fine cercano disperatamente di parlare, ci sono segni che i ragazzi cercano, sta noi inserirsi nella loro ricerca e non il contrario.

Cosa vuol dire seguire Gesù oggi?

Io non partirei da “io che seguo Gesù”, ma da Gesù che ti chiama, è lui che fa il primo passo. Questa è la vita cristiana, non sei tu che cerchi Gesù è lui che ti cerca, basta prendere la Bibbia. Se uno parte da “sono io”, credo che non funzionerà, non può funzionare, funziona nella misura in cui io riconosco che Dio mi sta cercando. O io mi metto in sintonia con questa ricerca di Dio, e allora il discorso di seguire Gesù nel 2021 vuol dire proprio questo: cogliere in me che c’è qualcuno che mi sta cercando. Pare impossibile, perché noi siamo sempre occupati, al limite preoccupati di trovare Dio; ma cerchiamo di intravedere Dio che ti cerca, e allora anche qui occorre che affiniamo le orecchie, gli occhi e il cuore. Dio mi sta cercando, sennò sono sempre io al centro e Dio ogni tanto arriva perché mi serve, mi dà una mano, mi aiuta, buonissimo anche questo non c’è dubbio. Per cui la prima cosa è davvero questa e bisogna creare occasioni per ascoltare Dio, io penso, ma voi già lo fate, ad esempio con le esperienze di silenzio e di Deserto.

Lo stemma vescovile di Mons. Tasca. “mostraci il Padre”

 

Mons. Anselmi diceva di recente ai consacrati proprio questo, di fare Silenzio (che è faticoso) e anche saper morire in noi stessi.

Infatti, il secondo elemento per seguire oggi Gesù è mettere al centro l’altra persona, non più io. Pensiamo Gesù Cristo dalla croce cosa ha detto a San Giovanni “io sono qui perché tu sei più importante di me, perché io muoio per te” è un messaggio apparentemente folle. Allora ecco questa dinamica anche nel seguire Gesù del “tu sei più importante di me”, questo è un messaggio sconvolgente.

Quindi per me il primo punto è non partire da me stesso, con “io cerco”, ma cosa vuoi cercare! Guarda, apri gli occhi a un Dio che ti cerca, e qui ci sarebbero mille brani del Vangelo (il figliol prodigo, …), ma è Dio che ti cerca, lasciati cercare, lasciati trovare invece di essere tutti noi preoccupati a fare lasciamoci trovare, semplicemente. Poi, secondo, nel seguire Gesù: tu sei più importante di me. Penso che oggi sarebbe un discorso veramente “bomba”, che metterebbe un po’ in crisi tanti nostri aspetti.

Infine, un augurio, un consiglio ad Agesci?

L’ho detto anche ai Responsabili Regionali, da voi esistono queste esperienze che i ragazzi vanno a fare all’esterno del gruppo. Perché non dare un po’ del loro tempo nelle nostre comunità cristiane? Lo fanno già probabilmente, ma io penso a questa proposta di fede oggi. Magari ragazzi sono già in crisi loro, ma allora è un’occasione ulteriore per riflettere. Io mi aspetto davvero questo: che insieme cerchiamo di annunciare oggi il Vangelo, perché altrimenti non so veramente a cosa serviamo. Per questo insieme, insieme, come possiamo oggi annunciare il Vangelo? Questa è la domanda che sta facendo a tutti i gruppi, a tutte le realtà. Io credo che sia una grande Grazia quella di poter insieme le nostre differenze per annunciare il Vangelo, ma dobbiamo provarci. Sennò, se non stiamo insieme, per conto mio non funziona. Quindi insieme! Questa è la parola chiave che io vi affiderei.

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