di Giacomo Montanari
Dopo la recente tavola rotonda “Be prepared”, un intervento per approfondire l’intreccio tra competenza, cultura e educazione.
“La testa nel cielo è vero, ma il camminare ti entra da terra”. La banalità della citazione di Scouting for Boys spero possa essere scusata dal soffermarsi qualche secondo in più sul significato sotteso a queste parole, ben più profondo e carnale di una semplice metafora della route come stile di vita. Come uomini del fare, la formazione che proponiamo nelle nostre unità è quella dell’esperienza, del confronto diretto, dello sporcarsi le mani con la concretezza delle scelte, costituite sempre da due momenti – entrambi decisivi: l’analisi della situazione e la messa in pratica di azioni. Oggi questi due momenti che tendono alla scelta consapevole sono uno degli strumenti più solidi di analisi critica di un mondo che – anziché complicarsi – si sta drammaticamente semplificando in opposizioni nette e intollerabili: la tradizione contro la realtà delle nostre comunità; la sicurezza contro l’inclusione; il progresso contro il territorio; l’emozione contro la cultura; la velocità contro una più salutare “lentezza”. Chi oggi pretenda di educare non può prescindere da questo: per quanto sempre più sradicati dalla nostra storia, dai nostri luoghi, dalle nostre (reali) radici, sempre più dimentichi della nostra millenaria cultura oggi – al contrario – siamo disposti a farcene insegnare il bignami da chi – a diverso titolo – pretende di offrircene l’estratto migliore. È invece il processo contrario a restituire la reale profondità e il concreto valore (tangibile e spendibile) del patrimonio culturale del nostro Paese: l’acquisizione di competenze che vadano al di là delle pagine web, della retorica nazionalista o del “riassunto” da ufficio del turismo. La competenza come conoscenza del territorio e dei suoi landmark non è sfoggio di erudizione, ma è immedesimazione nelle mani che quella terra hanno smosso, che quelle pietre hanno cavato; è condivisione di prospettive con quegli occhi che hanno costruito paesi, città, strade ancora da pensare; è farsi carne e sangue, piedi, mani, testa, cuore degli uomini che hanno segnato quel paesaggio con le loro scelte personali e di comunità. La retorica dominante, che condanna senz’appello la conoscenza come elitarismo, ha come solo obiettivo l’atto eversivo di scompigliare gli strumenti più puri che possono permetterci di leggere la realtà e di progettare il futuro. Conoscere (e studiare) non significa impartire lezioni o assurgere a un più alto livello socio-culturale: significa farsi promotori di nuove modalità per conoscere il mondo, a partire dai risultati ereditati da chi ci ha preceduto. Mettere a frutto un’eredità (difatti, in inglese, il patrimonio è appunto l’Heritage) che ci rende cittadini del mondo e del nostro paese. Cosa ha a che fare, questo, con il metodo educativo scout? Tutto. Con le nostre unità viviamo chiese in popolosi quartieri cittadini; abbazie remote; passi alpini; fortificazioni di confini che (apparentemente) non esistono più; sentieri che furono trincee per difendersi dal nemico o antiche vie di transito per un fiorente commercio. Camminiamo nella storia, ma nella maggioranza dei casi rinunciamo a coglierne il profondo valore educativo. Invece, proprio dal saper riconoscere quei segni (artistici, storici, paesaggistici), passa la più grande lezione che il patrimonio culturale (nella sua più ampia accezione) può oggi fornirci: è la relazione con il territorio a forgiare le comunità e a farle vivere. Forse, addirittura, è il territorio stesso (la natura, se vogliamo ampliare a dismisura il concetto) a determinare le necessità dei gruppi umani. Per fare un esempio assai retorico, la prima preoccupazione della neonata comunità francescana fu quella di ri-conoscersi, ri-costruendo una chiesa e adornandola con una croce. Non si tratta di una metafora, ma di una reale identità che s’intesse tra gli uomini e i luoghi. Oggi i tanti Capi che svolgono servizio in Associazione dovrebbero sapere riconoscere questa identità, facendosi per primi portatori di questa conoscenza e di questa memoria: recuperare il racconto come strumento sia educativo, sia formativo, ma trasportandolo fuori dal fantastico per diventare narrazione della concretezza del reale. Tanti anni fa, valicando il Colle delle Finestre partendo da Entracque, scoprii non senza commozione che i nostri scarponi erano transitati sulle tracce dei passi affannati di chi – a volte invano – aveva tentato di fuggire il regime fascista. Mi sono sempre rammaricato dell’occasione perduta nel non aver saputo costruire, con quei novizi, un percorso che non fosse solo “fisico”, ma che tenesse conto del valore di testimoni che quelle pietre e quelle caserme (ora) silenti avevano avuto nella storia recente dell’Europa. Ed è lo stesso per ogni chiesa, palazzo, pieve, paese, ogni luogo (d’arte e non) in cui ci troviamo ad agire come educatori. Non è certo richiesto di essere specialisti in ogni campo – sia chiaro – ma la consapevolezza di poter essere efficaci mediatori di un messaggio, risiede tra le necessarie competenze di un capo che voglia offrire strumenti e chiavi di lettura ai suoi ragazzi. Al di là poi dell’acquisizione di specifiche competenze (per le quali esistono gli esperti delle diverse discipline, che non è – quasi mai – una cattiva idea coinvolgere come testimoni), è lo sguardo a dover essere diverso: far precedere, senza neppure porsi il problema, l’attività sul luogo in cui essa verrà svolta, è una leggerezza che rischia di fare di noi più animatori che educatori. Un rischio che, al netto delle difficoltà che la nostra società sta vivendo, dobbiamo essere in grado di non correre.
Giacomo Montanari è storico dell’arte e divulgatore scientifico. Collabora con l’Università e il Comune di Genova ed è Curatore Scientifico delle manifestazioni relative al Patrimonio UNESCO dei Palazzi dei Rolli. È stato Responsabile della ex Zona Centro e IaBZ R/S
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